
Per chi deve guardare ai molteplici aspetti della professione medica attraverso la lente della deontologia, riferimento indispensabile per trattare delle varie forme di associazionismo nell’assistenza primaria è l’art. 79 del Codice Deontologico concernente “Innovazione e organizzazione sanitaria”, articolo che compare soltanto nella stesura più recente, 2014, del Codice. Se da un lato questa novità certifica l’attenzione costante della Federazione al continuo progresso dei modelli organizzativi professionali anche in rapporto alle mutate esigenze della società, dall’altro introduce un punto di equilibrio rispetto a tutte le norme che ripetutamente sottolineano la centralità del rapporto di fiducia fra cittadino e medico, che non viene certamente misconosciuto né superato, bensì integrato in una visione più avanzata e per forza di cose, più complessa dell’agire medico.
Ponendo l’accento sul fine del “continuo miglioramento della qualità dei servizi offerti agli individui e alla collettività” e sul dovere del medico di farsi garante della “indipendenza di giudizio” e della “appropriatezza clinica dell’organizzazione sanitaria”, l’articolo 79 riporta correttamente il nodo della questione nel campo della primaria e non delegabile responsabilità del medico nei processi di cura della persona, dai più elementari a quelli più articolati e complessi, senza negare che l’inondazione di nuove tecnologie, vorticosa in questi ultimi anni, esige approcci ragionevolmente nuovi non soltanto sul piano tecnico ma anche, e forse soprattutto, su quello della gestione di un rapporto che, pur rimanendo essenzialmente duale nella libertà di scelta del cittadino, mette a disposizione di quest’ultimo e del professionista di riferimento tutti i modelli organizzativi che accresciute esigenze richiedono e nuove opportunità rendono disponibili.
Sebbene la possibilità di operare in forma associata per i medici di medicina generale e pediatri di libera scelta compaia in modo organico negli accordi collettivi di categoria dal 2000, non mancano esperienze consociative in alcune regioni, come ad esempio l’Emilia Romagna, anche di molto antecedenti, ed è anche probabile che proprio queste siano state recepite dal legislatore per una proposizione sistematica e contrattualmente riconosciuta, sulle cui particolarità non ritengo utile addentrarmi dal momento che l’istituto contrattuale presenta tutt’oggi differenze anche consistenti fra regioni diverse e dunque ricadute difficilmente omologabili sul piano assistenziale in termini generali.
Oltre ad articolati studi di Agenas sugli outcome assistenziali e di predittività degli indicatori di salute in alcune patologie croniche, il lavoro più corposo sulle aggregazioni funzionali in assistenza primaria rimane un report del 2013 della Fondazione ISTUD e Osservatorio delle Cure Primarie “Le cure primarie in Italia: verso quali orizzonti di assistenza”, in collaborazione, tra gli altri, con Cittadinanzattiva e Federazione Italiana Medici di Medicina Generale, che ha coinvolto cittadini, medici e decisori politici di dieci regioni italiane, e dunque un campione sufficientemente rappresentativo per aprire un confronto oggettivo su risultati e prospettive.
Se il dato complessivo dello studio riporta, all’epoca, una quota del 50% di medici operanti nelle varie forme associative (équipes territoriali, rete, super-rete, e soprattutto medicina di gruppo che risulta quella più gradita ed efficace), la distribuzione territoriale appare fortemente squilibrata in favore delle regioni settentrionali; è tuttavia verosimile che sulle differenze pesino non tanto una tendenza all’isolazionismo e all’autoreferenzialità che pure, soprattutto nelle fasce di età più elevate, si dimostra importante, quanto una asincrona e disomogenea applicazione degli istituti contrattuali nelle regioni meridionali, attesi peraltro i diversi volumi di stanziamenti rispetto alla medicina esercitata in forma singola. Di particolare rilievo è peraltro la corrispondenza fra disponibilità di studi associati e afferenza al pronto soccorso e alla guardia medica, entrambe dimezzate, mentre si riduce addirittura di un 75% il ricorso a medici privati in libera professione. Questi dati, insieme al gradimento dei pazienti che supera l’80%, basterebbero da soli a configurare tali modelli organizzativi come efficaci nel fornire risposte ai bisogni di salute sul territorio, anche se l’indagine dimostrerebbe che l’accesso agli studi associati avviene prevalentemente per prescrizioni ripetitive o trascrizioni di esami, mentre quasi del tutto ignorati appaiono processi di medicina d’iniziativa nel campo della prevenzione, ben più utili nell’auspicabile percorso di disintermediazione delle risposte ai bisogni di salute che una capillare ed organica presenza di aggregazioni funzionali della medicina generale e pediatrica potrebbero sottrarre ad altri, spesso ridondanti, attori di sistema, con indubbio beneficio per l’utenza.
Non meno interessante è il punto di vista dei professionisti, che non si limita ad una ovvia valutazione positiva delle indubbie economie di scala, incentrandosi soprattutto sugli aspetti organizzativi come volano di migliori performances e sulla possibilità di audit interno al gruppo, con inevitabili ricadute sulla qualità dell’assistenza e sul livello delle cure in termini di appropriatezza e sicurezza.
Per quanto negli anni successivi allo studio il congelamento delle norme convenzionali e, in alcune regioni, la tagliola dei piani di rientro abbiano fortemente frenato la costituzione di un numero sempre maggiore di aggregazioni, è innegabile come l’abbassamento dell’età media dei medici e l’accesso alla convenzione di professionisti provenienti dal corso di formazione specifica comporteranno inevitabilmente una virtuosa proliferazione delle forme associative, superando quelle resistenze finora dettate soprattutto dalla consuetudine e da un irrazionale rifiuto del nuovo.
In questo senso sono anche da leggersi le più interessanti innovazioni introdotte dai recentissimi accordi collettivi nazionali, laddove prevedono anche una graduale implementazione di abilità diagnostiche strumentali di primo livello, con il duplice obiettivo di alleggerire il carico per le strutture specialistiche e di fornire, soprattutto, nelle patologie di minore entità o nelle malattie croniche facilmente monitorabili con procedure di base, un ciclo completo di prestazioni da esaurire con soddisfacenti risultati e ottimizzazione delle risorse nell’ambito dell’approccio generalista al paziente.
Contraddice invece questa lettura la recente proposta ministeriale di inserimento dei medici di medicina generale nei presidi di Pronto Soccorso per il trattamento dei codici bianchi, iniziativa che ad avviso dello scrivente indulge ad una visione ancora ospedalocentrica della sanità, in evidente contrasto con il principio di decentramento che il rafforzamento della capillare organizzazione sul territorio implicitamente esige. Utile sarebbe invece un passo decisivo in avanti sulla reale dematerializzazione delle prescrizioni e sull’interazione digitale fra i vari nodi di rete del sistema sanitario, nell’ottica di una sburocratizzazione che gioverebbe ai cittadini prima ancora che ai medici.
In conclusione, alla luce di un’esperienza ormai quasi ventennale, il rischio paventato di una spersonalizzazione del rapporto fiduciario connaturato alla medicina generale e pediatrica non solo non è dimostrato, ma è addirittura smentito nella teoria e nella pratica. Anzi, una maggiore offerta di servizi ed una facilitazione degli aspetti ancillari dei percorsi assistenziali non possono che tradursi in una maggiore fidelizzazione del paziente nei confronti del “suo” medico, con reciproca soddisfazione di entrambi. E dunque in un rafforzato rispetto del dettato deontologico, che prevede, questa volta all’art. 6, il perseguimento di un “uso ottimale delle risorse pubbliche e private salvaguardando l’efficacia, la sicurezza e l’umanizzazione dei servizi sanitari”.
Cosimo Nume
Presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Taranto, Responsabile Area Strategica Comunicazione FNOMCeO
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