by | Lug 31, 2022 | News
Lo rivela uno studio che ha coinvolto 21 Paesi e oltre 51.500 soggetti.
Solo un paziente su 10 con disturbi di ansia riceve il giusto trattamento. È quanto emerge da uno studio internazionale guidato dall’Hospital del Mar Medical Research Institute di Barcellona, che ha coinvolto 21 Paesi (oltre 51.500 persone) ed è stato pubblicato su Depression and Anxiety. La ricerca rivela che sono il 10% coloro che soffrono di ansia. Di queste, solo il 27,6% ha ricevuto qualche tipo di trattamento, e questo è stato considerato appropriato solo nel 9,8% dei casi.
La frequenza del disturbo varia molto tra i Paesi. È stato calcolato che i disturbi d’ansia colpiscono il 5,3% delle popolazioni africane, mentre la percentuale è, ad esempio, del 10,4% in ambito europeo. Va inoltre notato, secondo gli studiosi, che alcuni disturbi d’ansia, in particolare fobie, ansia sociale e quella da separazione, iniziano molto presto (dai 5 ai 10 anni), mentre altri, come il disturbo d’ansia generalizzato, il panico e il disturbo post-traumatico da stress, tendono ad apparire tra i 24 e i 50 anni.
La bassa percentuale di pazienti che ricevono un trattamento adeguato è dovuta a vari fattori. In molti casi, né chi ne soffre né il sistema sanitario riconoscono la necessità di cure. Solo il 41,3% delle persone con questi disturbi, infatti, è consapevole del bisogno di cure e, quando l’ansia non è combinata con un altro tipo di problema, questa percentuale scende al 26,3%. A ciò si aggiungono i costi di trattamento e lo stigma percepito dai malati, che ne limita ulteriormente il trattamento. Anche nei Paesi ad alto reddito, solo un terzo delle persone con disturbi d’ansia riceve un trattamento, a eccezione degli Usa, dove i tassi di assistenza sono considerevolmente più alti.
Redazione NurseTimes
Fonte: Ansa
Ansia, solo il 10% dei pazienti riceve un trattamento adeguato
Riflessioni di un infermiere (ex territoriale)
Le scale di valutazione: Glasgow Coma Score, Cincinnati Prehospital Stroke Scale, Scala di Rankin, Scala di Ashworth, Scala di Braden e Scala di Conley
Un solo infermiere per assistere 95 pazienti in una casa di riposo. La denuncia del Nursind
La Diagnosi Infermieristica
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by | Lug 31, 2022 | News
Un infermiere specialista nell’assistenza domiciliariare integrata racconta la sua esperienza, le aspettative e le delusioni dopo 33 anni di servizio
Gentile Direttore di NurseTimes,
premetto che ho da poco compiuto i 33 anni lavorativi. Ho esercitato in diversi ambiti clinici per poi approdare all’assistenza domiciliare (ADI) quando ancora era vista come una sfida, un ambito su cui poter sviluppare le competenze e specializzarsi sul campo.
Non esistevano ancora master o corsi che offrivano una via preferenziale. Ricordo che si era motivati, si facevano sperimentazioni organizzative, si collaborava con tutti gli attori sanitari e non, in ambito ospedaliero e territoriale. Si contribuiva a trovare una soluzione che mettesse al centro sia il paziente (e i familiari, vera forza motrice per fornire un’assistenza efficace ed efficiente) sia i colleghi ospedalieri per far si che i posti letto si rendessero disponibili per chi avesse necessità di cure e assistenza ospedaliera, riducendo ove possibile i tempi di degenza. Ci si raccordava dopo la segnalazione dalla struttura di ricovero: si facevano visita e colloquio col paziente e/o con i familiari, a cui seguiva una visita domiciliare per verificare la possibilità di attivazione dell’ADI e la restituzione della valutazione per richiedere eventuali aggiustamenti (presidi, fornitura di materiale, etc), in maniera tale da riuscire a programmare una vera dimissione protetta.
Spesso il medico di famiglia (MMG) era presente, informato da noi o dal medico ospedaliero, o chiedeva lui stesso l’attivazione in assenza di ricovero. Il Comune di residenza, ove necessario, veniva attivato per contribuire dal punto di vista sociale. Dovevamo gestire pazienti multiproblematici, con diverse patologie e con un’assistenza che spaziava dal chirurgico all’oncologico, dal vascolare al diabetico al geriatrico.
Ci si metteva in gioco, s’imparava e ci si affinava sul campo e, quando necessario, si chiedeva consulenza ai colleghi ospedalieri e viceversa. Qualora si manifestavano problemi di tipo clinico non gestibili a domicilio (escluse urgenze), ci si attivava per una via preferenziale per il ricovero evitando di intasare il Pronto Soccorso. Era un piccolo contributo per la tutela dei più fragili. Impiegai qualche anno ad assorbire ed accettare la mentalità territoriale perché possedevo quella ospedaliera, l’unica disponibile a quei tempi. Per i meno smaliziati sto parlando degli anni ‘90 del secolo scorso. Con il tempo siamo cresciuti, i preposti uffici regionali erano all’avanguardia, organizzavano corsi e sperimentazioni. Erano occasioni utili per lo scambio di esperienze, di riflessioni. Fu un periodo estremamente stimolante e creativo a tutti i livelli. Certo i problemi c’erano ma non si mettevano da parte, non finivano sotto un tappeto in attesa. Si cercava di risolverli, con il contributo di tutti.
Poi la situazione cambiò repentinamente. L’ADI fu affidata a società cooperative private accreditate (un po’ per ricalcare il disegno delle strutture ospedaliere private accreditate), privilegiando l’aspetto prestazionale e mettendo in un angolo quello relazionale ed educativo. Pian piano noi seguimmo il corso degli eventi, adattandoci. Nel frattempo il mondo correva. Gli infermieri entrarono (finalmente) in Università: prima fu diploma universitario, poi laurea triennale e magistrale, a seguire dottorato e vari master sia di primo che di secondo livello).
Le varie riforme che si sono susseguite negli anni hanno creato aspettative ma purtroppo la maggior parte sono andate deluse. Inoltre la pandemia ha in una certa qual misura riscritto i confini e ci ha fatto rendere conto dei nostri limiti…qualcuno ne sta ancora portando i segni, i postumi e la consapevolezza che, se dovesse succedere di nuovo, non saremo assolutamente pronti.
Ora si cerca di dare rilevanza al territorio. Quel territorio che qualcuno di noi ha vissuto, in cui abbiamo creduto e di cui abbiamo, purtroppo, pagato il prezzo più caro. Con qualche decina di fogli scritti si cancellò quello che si era costruito nei decenni precedenti…semplicemente tutto fu dimenticato.
Vogliamo ricostruire? Bene si parta dal raccogliere quello che di buono c’è stato, la storia insegna…l’esperienza anche. Ma a quanto pare poco interessa, poco riguarda. È evidente che ci siano delle responsabilità se si è arrivati a questo punto. Sarebbe sufficiente chiedere un contributo a chi esperienza ne ha. Forse, contemporaneamente al fatto di essere in grado di sapere, saper essere e saper fare, bisogna anche capire quali sono i limiti…quello di non sapere, di non saper essere e di non saper fare.
A volte ammettere di essere ignoranti (nel senso di una conoscenza lacunosa di un argomento) è indice di maturità e può essere di stimolo per crescere. Soprattutto è necessario tornare a collaborare, interagire, confrontarsi. Dobbiamo recuperare la nostra specificità e adattarla alle esigenze dei tempi attuali. Nel nostro lavoro non esistono domande stupide, ma sicuramente esiste il pericolo di commettere errori stupidi.
Redazione Nurse Times
Ansia, solo il 10% dei pazienti riceve un trattamento adeguato
Riflessioni di un infermiere (ex territoriale)
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by | Lug 31, 2022 | News
Le scale di valutazione sono l’asso nella manica degli operatori sanitari, perché riescono con domande mirate e ridurre tempo e migliorare l’accuratezza della diagnosi o del soddisfacimento del bisogno di quel determinato paziente.
Ce ne sono davvero tante e ogni giorno ne vengono validate ancora altre per rendere la pratica clinico-assistenziale sempre più all’avanguardia. Uno degli ambiti che maggiormente fa uso di queste scale è sicuramente quello neurologico, questo perché le patologie sono tante, ma molto spesso hanno segni e sintomi simili che potrebbero rendere difficile una differenziazione attiva. Tenendo anche conto che in neurologia, come anche in altre specialità, il tempo è salute e bisogna ridurlo al minimo.
Vediamo una alla volta tra quelle maggiormente utilizzate.
GLASGOW COMA SCORE è molto semplice da utilizzare ed è specifica per valutare lo stato di coscienza del soggetto, non viene solo usata in ambito neurologico (infatti è utilissima durante il soccorso stradale per identificare un paziente in coma o in uno stato di parziale incoscienza). Si effettua la somma dei diversi punteggi ottenuti rispetto a tre categorie: “apertura degli occhi”, “risposta verbale”, “risposta motoria”. Il valore maggiore che si può ottenere è 15 e identifica un paziente cosciente, mentre valori uguali o inferiori a 8 rappresentano uno stato vero e proprio di coma.
CINCINNATI PREHOSPITAL STROKE SCALE è una scala di valutazione medica usata per l’identificazione attiva dell’ictus. Si basa maggiormente su tre parametri: “mimica facciale” (importante per identificare una emiparesi del volto), “spostamento delle braccia” (gli arti si muovono in maniera uguale? Uno dei due risulta meno tonico o tende a cadere?), “linguaggio” (il paziente riesce a ripetere delle frasi o degli scioglilingua).
SCALA DI RANKIN è utilizzata per l’identificazione dello stato di disabilità di un paziente rispetto alle attività della vita quotidiana. In questo caso si hanno sette livelli di gravità: pz con nessuna sintomatologia, nessuna disabilità nonostante l’evidenza dei sintomi, disabilità lieve, disabilità moderata, disabilità moderatamente grave, disabilità grave e pz deceduto. È molto utilizzata soprattutto durante la degenza di pazienti con pregresso ictus, e non sicuramente in uno stato acuto di patologia appena presentato.
SCALA DI ASHWORTH è usata per valutare la spasticità muscolare del paziente in ambito neurologico. Le popolazioni “target” di questa scala solo sicuramente i pz con MS, ictus, lesioni cerebrali o paralisi. I livelli sono essenzialmente 5: “nessuno aumento del tono muscolare”, “lieve aumento”, “aumento più marcato”, “considerevole aumento”, “arto in flessione ed estensione impossibile da mobilizzare anche passivamente”.
SCALA DI BRADEN viene utilizzata in maniera preventiva, per evitare l’insorgenza di lesioni da pressione in pazienti che sono in evidente rischio. Essa conta principalmente 6 fattori: l’attività motoria residua del paziente, l’umidità della cute, la percezione sensoriale, la mobilità, lo stato di nutrizione e l’eventuale frizione o scivolamento della cute sul sostegno di supporto. L’alto rischio viene evidenziato nel caso di punteggio minore o uguale a 6. In questi casi non bisogna solo applicare la scala di Braden a tempo 0, infatti la prevenzione di queste lesioni dovrebbe essere effettuata sempre, con accorgimenti quali la movimentazione del paziente almeno ogni 2 ore, ridurre al minimo l’esposizione della cute ai liquidi biologici, cambio frequente della biancheria e del vestiario, utilizzo di supporti adeguati.
SCALA DI CONLEY è uno strumento utile per ridurre il rischio cadute nei pazienti, anche questa volta a rischio. Le domande sono mirate e vengono effettuate direttamente al paziente o ai caregiver. Il senso di questa scala è poter identificare in maniera specifica delle azioni per ridurre questo rischio in ambito di degenza ospedaliera. I valori compresi tra 0 e 1 indicano un rischio minimo, uguale o superiore a 2 indica un pz a rischio.
Sicuramente le cliniche neurologiche usufruiscono giornalmente di questi mezzi per migliorare la pratica clinica, perchè il nostro obiettivo deve essere sempre quello di soddisfare i bisogni del paziente. E se chi ci sta di fronte non ha la possibilità di badare ai propri bisogni da solo o comunque è impossibilitato parzialmente o solo per un determinato periodo?
Noi in quanto professionisti sanitari dobbiamo agire secondo la coscienza e le linee guida sopperendo alle sue mancanze fino a sostituirci a lui se necessario alla sopravvivenza. Non è poco importante ridurre i rischi possibili, perché anche solo in minima percentuale potrebbero far degenerare, un quadro di base già precario, in maniera repentina e irreversibile. Sarebbe utile però poter unificare le scale di valutazione a livello nazionale, in tutti gli ospedali e gli ambulatori specializzati per rendere migliore i risultati in previsione degli obiettivi assistenziali prefissati. Solo unificando queste azioni potremmo mirare al miglioramento comune della pratica clinica rendendo anche più agevole il cambio sede per gli operatori.
Dott.ssa Taccogna Federica
Ansia, solo il 10% dei pazienti riceve un trattamento adeguato
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by | Lug 31, 2022 | News
La denuncia di Gabriele Montana del NurSind “Confidiamo in una risoluzione di questa gravissima situazione”.
Un infermiere per 95 pazienti a volte albe più. Chiesto immediato intervento alla commissione di vigilanza dell’Asl di Asti.
Il sindacalista rimarca il “preoccupante rapporto infermiere/pazienti presente all’interno della Casa di Riposo Villa Cora di Costigliole d’Asti”.
Per questo motivo pochi giorni fa NurSind ha deciso di inviare una lettera alla direzione sanitaria di Villa Cora, alla Commissione di Vigilanza dell’Asl-At e all’Opi Asti (Ordine delle Professioni Infermieristiche) per denunciare la carenza di personale infermieristico all’interno della struttura astigiana.
“Il rapporto segnalato dai colleghi che lavorano nella casa di riposo di Costigliole d’Asti – afferma Gabriele Montana, segretario territoriale NurSind Asti – risulta molto pericoloso sia in termini di tutela per i pazienti che di responsabilità per i professionisti infermieri. Vista la gravità della situazione abbiamo deciso di coinvolgere la Commissione di Vigilanza dell’Asl-At e l’Opi Asti. Nonostante la segnalazione, ad oggi, non abbiamo ancora ricevuto riscontro da parte dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche che avrebbe il compito di garante nei rapporti tra infermieri e cittadinanza”.
“Si attende una risposta anche dalla Commissione di Vigilanza dell’Asl-At dove – prosegue Montana – mi sono recato personalmente. Se nulla cambierà, quindi, saremo costretti ad inoltrare la segnalazione alla Procura della Repubblica, questo per il bene dei pazienti della struttura e dei colleghi che lavorano a Villa Cora. Ma non è tutto. Fa pensare, diversamente da quanto accade solitamente, che la situazione critica sia stata segnalata proprio dagli infermieri che operano quotidianamente all’interno della struttura privata (fatto che non avviene spesso per la paura di perdere il lavoro). I professionisti, infatti, hanno scelto di denunciare la situazione, senza paura di perdere il posto, nella speranza che tutto possa cambiare per il bene dell’utenza”.
Oltre al rapporto infermiere/pazienti, in struttura ci sarebbero altre situazioni critiche da risolvere immediatamente. Risulta, infatti, una carenza di: ventilatori per dare refrigerio ai pazienti nelle giornate di caldo intenso, un carrello delle emergenze e un defibrillatore (Dae), ma anche farmaci e ossigeno (reperito solo dietro prescrizione medica). La mancanza di un’assistenza adeguata unita alle diverse criticità ed il caldo di questi giorni hanno fatto sì che più volte fosse richiesto l’intervento del 118 e che gli anziani fossero trasportati al Pronto Soccorso. Questo, addirittura, è avvenuto per ben cinque pazienti in una sola giornata, a testimonianza dell’emergenza presente in struttura. Gli stessi operatori del 118 intervenuti, inoltre, avrebbero segnalato in Pronto Soccorso la situazione d’emergenza emersa nella struttura di Costigliole d’Asti.
Più volte i colleghi infermieri che operano a Villa Cora hanno cercato di confrontarsi con la Direzione della struttura per dichiarare le diverse criticità e trovare una soluzione comune, ma non sono mai stati realmente ascoltati. Gli infermieri non riescono mai, in tale situazione, a concludere il turno entro l’orario di servizio stabilito e a fornire un’assistenza dignitosa ai pazienti.
“Confidiamo al più presto possibile – afferma Gabriele Montana – in una risoluzione di questa gravissima situazione con un incremento delle unità infermieristiche in turno per non esporre pazienti e operatori a ulteriori rischi”.
Redazione NurseTimes
Ansia, solo il 10% dei pazienti riceve un trattamento adeguato
Riflessioni di un infermiere (ex territoriale)
Le scale di valutazione: Glasgow Coma Score, Cincinnati Prehospital Stroke Scale, Scala di Rankin, Scala di Ashworth, Scala di Braden e Scala di Conley
Un solo infermiere per assistere 95 pazienti in una casa di riposo. La denuncia del Nursind
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by | Lug 31, 2022 | News
“La diagnosi infermieristica è un giudizio sulle risposte date dall’individuo, dalla famiglia o dalla comunità, ai problemi di salute e ai processi vitali, reali o potenziali. La diagnosi infermieristica fornisce le basi per effettuare una scelta degli interventi assistenziali infermieristici, che porteranno al conseguimento degli obiettivi dei quali è responsabile l’infermiere”
Tale definizione di diagnosi venne data dalla NANDA (North American Nursing Diagnosis Association, di cui la prima presidentessa fu la Gordon), nel marzo del 1990, nel corso della sua nona conferenza.
La prima infermiera a parlare di diagnosi infermieristica fu Virginia Fry, nel 1953, tramite un articolo apparso su una rivista specializzata. Il concetto che l’infermiere potesse formulare diagnosi tardò ad affermarsi, in quanto si riteneva che “la diagnosi” fosse una prerogativa unicamente medica.
Il momento di formulazione della diagnosi, rappresenta la 2° fase del processo di nursing.
Il ragionamento diagnostico prevede:
interpretazione dei dati (raccolti con l’accertamento) e collegamento tra essi;formulazione e verifica delle ipotesi;definizione del problema e della diagnosi infermieristica.Al momento della formulazione della diagnosi, è fondamentale stabilire una scala delle priorità, in relazione ai problemi reali e/o potenziali che il professionista infermiere riscontra.
Ogni problema rilevato deve essere annotato riportando la data stessa della rilevazione (dunque sia al momento del ricovero, sia eventuali problemi che insorgono durante il periodo di degenza).
Le diagnosi infermieristiche possono essere formulate secondo due diversi metodi, il metodo NANDA ed il metodo PES. La formulazione di diagnosi con metodo NANDA, prevede:
titolo (che enuncia il tipo di problema);definizione (non presente obbligatoriamente, va a semplificare e spiegare il concetto espresso nel titolo);caratteristiche definenti (segni e sintomi del problema, come questo si manifesta e ciò che il paziente accusa);fattori correlati (cause contribuenti al problema, cause che possono essere di natura fisiopatologica, correlate a trattamenti, situazioni e fasi maturative).La formulazione di diagnosi con metodo PES (problema – eziologia- segni/sintomi), consiste nell’enunciazione del problema legato ai suoi fattori correlati, argomentando l’affermazione mediante la descrizione dei segni e sintomi.
La diagnosi infermieristica non è univoca, ma possiamo avere diverse tipologie in relazione al problema della persona.
Per cui abbiamo le diagnosi:
reali rappresentano una condizione convalidata clinicamente;di rischio si riferiscono a problemi cui una persona, una famiglia o una comunità potrebbero essere suscettibili o vulnerabili;possibili si formula nel momento in cui non è confermata da dati validati clinicamente, ma potrebbe, appunto, possibilmente presentarsi;di benessere possono essere poste nel momento in cui il paziente gode di buona salute ed esprime il desiderio di portare il proprio benessere ad un livello superiore (ciò si attua, dunque, mediante interventi di educazione sanitaria e promozione della salute);a sindrome, invece, si formulano nel momento in cui il paziente presenta un insieme di problemi concomitanti, quindi nel momento in cui diverse D.I. Si verificano insieme, ed è necessario agire mediante interventi simili (ad esempio nei casi di pazienti vittime di stupro).Le enunciazioni diagnostiche sono costituite da una, due oppure tre parti, in relazione al tipo di diagnosi che viene formulata.
Le diagnosi a sindrome o di benessere presentano solo una parte, cioè il titolo diagnostico, in quanto gli altri elementi non sono reperibili.
Le diagnosi possibili o di rischio presentano due parti, cioè il titolo diagnostico e gli eventuali fattori di rischio che contribuiscono a modificare lo stato di salute.
Infine, le diagnosi reali, contengono tutte e tre le parti dell’enunciazione diagnostica: titolo, fattori contribuenti, segni e sintomi.
Esempio di diagnosi
Titolo: compromissione dell’integrità cutanea.
Correlata a: immobilità prolungata
secondaria a frattura pelvicaChe si manifesta con: lesione sacrale di 2 cm.
Parlando di formulazione di diagnosi, è opportuno chiarire anche cosa siano i problemi collaborativi.
Si parla di problema collaborativo a proposito di certe complicazioni che l’infermiere controlla per individuare la comparsa o una modificazione, ma su cui però, per la risoluzione, non può agire autonomamente; ciò vede dunque coinvolte altre figure, come gli altri professionisti sanitari (fisioterapisti, logopedisti, medici…).
Stabilita e formulata la diagnosi, valutati gli obiettivi da raggiungere, questi vengono distinti in obiettivi a breve termine ed obiettivi a lungo termine.
Gli obiettivi a breve termine sono obiettivi il cui raggiungimento è atteso come evento fondamentale nel percorso; gli obiettivi a lungo termine, invece, sono obiettivi il cui raggiungimento è atteso nell’arco di settimane o mesi.
La diagnosi infermieristica si basa sui concetti di NIC (nursing interventensions classification) e NOC (nursing outcomes classification).
In relazione agli obiettivi prefissati (NOC), si attuano gli interventi infermieristici del caso (NIC).
Martina Crocilla
Fonti
Lynda Juall Carpenito-Moyet, Diagnosi infermieristiche. Applicazioni alla pratica clinica
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